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Accesso ad internet per ragioni extralavorative: è legittimo il licenziamento disciplinare!

Carmine Milo No Comments

Con sentenza del 1° febbraio 2019, n. 3133, la Suprema Corte di Cassazione sancisce la legittimità del licenziamento intimato ad una dipendente per abuso della connessione internet dal pc assegnatole in dotazione dall’azienda.

La lavoratrice – segretaria part time in uno studio medico – viene sorpresa a navigare su internet dal computer aziendale, per fini strettamente personali, non in modo sporadico od eccezionale ma, al contrario, del tutto sistematico: circa 6 mila accessi nel corso di 18 mesi, di cui 4.500 circa su facebook, per durate talora significative.

A fronte di tale condotta, la Suprema Corte conferma la legittimità del recesso datoriale per giustificato motivo soggettivo, valorizzando, specificamente, il profilo della intenzionalità e della reiterazione nell’utilizzo della strumentazione aziendale per fini strettamente personali, contrario alle regole elementari del vivere comune.

La Corte, richiamando precedenti pronunce omogenee, osserva come l’obbligo di diligenza previsto dall’art. 2104 c.c. si sostanzi non solo nell’esecuzione della prestazione lavorativa secondo la particolare natura di essa – diligenza in senso tecnico – ma anche nell’esecuzione di quei comportamenti accessori che si rendano necessari in relazione all’interesse del datore di lavoro ad un’utile prestazione.

Nella ricostruzione operata dai giudici di legittimità, a fronte dell’affermazione in ordine al fatto che la stessa dipendente non abbia negato di avere effettuato la gran parte degli accesi ad internet, la ricorrente, secondo quanto motivato in sentenza, non poteva limitarsi ad una generica replica in senso contrario, ma doveva riportare e trascrivere, nell’ambito argomentativo del ricorso, i passaggi delle difese svolte in sede di merito, in cui le contestazioni da essa mosse erano contenuti.

Nel caso di specie, peraltro, non può ravvisarsi alcuna violazione della normativa sulla privacy atteso che il controricorrente si è limitato a verificare l’esistenza di accessi indebiti alla rete ed i relativi tempi di collegamento, senza compiere alcuna analisi dei siti visitati dal dipendente durante la navigazione o della tipologia dei dati scaricati. Nella lettura sistematica della Corte, appare rimarcare, però, che i dettagli del traffico non costituisconodati personali”, non contenendo alcun riferimento alla persona dell’utente o alle sue scelte, rimanendo, invece, confinati in una sfera estrinseca e quantitativa che è di per sé sovrapponibile, senza alcuna capacità di individuazione, ad un numero indistinto di utenti della rete.

In definitiva, la Suprema Corte, riprendendo un consolidato orientamento giurisprudenziale, puntualizza che non si configurino in alcun modo i presupposti del controllo a distanza della prestazione lavorativa di cui allo Statuto dei Lavoratori, considerato che resta del tutto esclusa dal campo di applicazione della normativa quella attività che sia volta ad individuare la realizzazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, idonei a ledere l’integrità del patrimonio aziendale.

 

insulti su facebook

Se si offende qualcuno su Facebook si rischia un processo per diffamazione aggravata!

Carmine Milo No Comments

Il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero trova pieno riconoscimento nell’art. 21 della Costituzione. Tuttavia, tale libertà può e deve trovare delimitazioni laddove il suo esercizio confligga con altri interessi costituzionalmente tutelati, ma antagonisti, tra cui quello relativo al rispetto dell’altrui reputazione, garantito dall’art. 2 della Costituzione.

Alla luce della rilevanza che assume il diritto alla salvaguardia della propria reputazione, l’ordinamento giuridico italiano riconosce tutela penale a tale bene personale attraverso l’art. 595 c. p.,che disciplina il delitto di diffamazione.

Tale reato si configura quando, attraverso qualunque mezzo di comunicazione idoneo a raggiungere una pluralità di persone, vengano profferite espressioni volte a compromettere il valore e il senso di stima di cui gode, nella collettività di appartenenza, un determinato individuo non presente, che — non essendo posto nelle condizioni di percepire direttamente l’offesa — non può proporre difesa alcuna alla propria persona.

Qualora, però, l’offesa alla reputazione sia effettuata con ilmezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, la legge prevede una forma aggravata di diffamazione, nell’eventualità in cui il delitto sia consumato attraverso il ricorso a qualunque tipo di riproduzioni grafiche (ad esempio manifesti o volantini)ottenute con qualsiasi mezzo meccanico — fotocopiatrice, stampante o computer — e destinate alla diffusione ad un numero indifferenziato di persone.

Nell’ultimo decennio, l’evoluzione tecnologica e telematica ha indotto gli operatori del diritto a valutare l’ipotesi di estendere il reato di diffamazione aggravata ai casi in cui le espressioni diffamatorie vengano propagate con mezzi di comunicazione non rientranti nel tradizionale concetto di stampa e di pubblicità, primo tra tutti, i social network.

La questione è divenuta di stringente attualità proprio in ragione della crescente diffusione dell’utilizzo di tali strumenti di comunicazione di massa, che consentono di manifestare le proprie opinioni ad una pluralità potenzialmente indeterminata di destinatari e che, oggettivamente, costituiscono mezzi idonei a diffondere espressioni offensive dell’altrui reputazione.

Qual è, dunque, l’attuale posizione della giurisprudenza?

Con la sent. n. 24431 del 2015, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha posto un punto fermo.

I giudici di legittimità hanno ricordato, innanzitutto,che la superiore gravità del reato di diffamazione a mezzo stampa si giustifica per il maggiore danno provocato all’offeso, derivante dalla capacità degli strumenti utilizzati di raggiungere un grande numero di persone.

La Suprema Corte ha chiarito, inoltre, che non solo la stampa, ma anche “qualsiasi altro mezzo di pubblicità” rappresenta strumento idoneo a conseguire un’ampia diffusione dell’offesa ed a configurare la condotta illecita.

Nello specifico, il social network facebook — mezzo attraverso cui alcuni gruppi di persone socializzano, raffrontano le rispettive esperienze di vita e instaurano rapporti interpersonali allargati — ha, in forma potenziale, la capacità di raggiungere un elevato numero di persone.

Lo scritto offensivo “postato” sulla propria o sull’altrui bacheca, proprio in ragione dell’ingente numero di potenziali destinatari, conseguirà un’ampia pubblicizzazione e diffusione del messaggio, conducendo di certo ad integrare la consumazione del delitto di diffamazione aggravata.

In conclusione…

Alla luce di quanto argomentato, dunque, se si è destinatari di “post”, commenti o di qualsiasi altro tipo di espressione a carattere diffamatorio e si intende far sanzionare penalmente il soggetto che ha offeso la reputazione, dovrà essere sporta formale querela entro novanta giorni dal momento in cui si ha avuto contezza del fatto illecito.

Qualora, invece, siano stati utilizzati toni poco “garbati” nei confronti di altri utenti, sarà, forse, opportuno riconsiderare le priorità, magari contattando la persona offesa, chiedendo pubblicamente scusa, nella speranza di riuscire ad evitare il pericolo della formalizzazione della querela.

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