La diffusione dell’allarme sociale per la crescita esponenziale dei fenomeni di maltrattamento dei cani ha rappresentato monito concreto per il puntuale intervento del legislatore.
Negli ultimi anni, ai fini della prevenzione del rischio di aggressione, è stato attribuito un ruolo fondamentale alla responsabilità dei proprietari.
La crescente sensibilità collettiva nei confronti degli amici a quattro zampe, infatti, ha rafforzato la tutela attraverso previsioni normative e giurisprudenziali sempre più rigide a carico del proprietario, che — responsabile del benessere e del controllo del proprio animale — risponde, pertanto, sia civilmente che penalmente dei danni o delle lesioni che il cane arreca a persone, animali o cose.
La Suprema Corte, con due recenti pronunce, oltre a tracciare, con la solita puntualità, i divieti e gli obblighi imposti ai proprietari, si è soffermata su due aspetti di rilievo, attinenti, rispettivamente, all’uso del collare e ad un adeguato riparo per il riposo del cane.
In merito all’uso del collare elettrico antiabbaio — che produce scosse o altri impulsi elettrici trasmessi al cane tramite comando a distanza — la Corte ha chiarito che il suo utilizzo integra il reato di cui all’art. 727 c.p., in quanto concretizza una forma di addestramento fondata esclusivamente su uno stimolo doloroso tale da incidere sensibilmente sull’integrità psicofisica dell’animale.
Segnatamente, la Terza Sezione della Corte di Cassazione — con la sentenza n. 3290, depositata in cancelleria il 24 gennaio 2018 — ha condannato l’imputato ai sensi dell’art. 727, comma 2, c.p., fattispecie contravvenzionale rubricata « abbandono di animali » che punisce, con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro, « chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze ».
Sul punto, è opportuno rimarcare che la pronuncia del 2018 ha rafforzato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini dell’integrazione degli elementi costitutivi del reato, la sofferenza può consistere nei soli patimenti, non essendo necessaria la volontà del soggetto agente di infierire sull’animale, né che quest’ultimo riporti una lesione all’integrità fisica.
Ne deriva, pertanto, che sono idonei ad integrare il reato di abbandono di animali, non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione.
In relazione alla problematica relativa all’uso di una cuccia non adeguata, è stato riservato un trattamento sanzionatorio differente al proprietario di un pastore tedesco che — accusato di aver sottoposto a vere e proprie sevizie, tenendolo legato e senza un adeguato riparo nei mesi invernali — è stato ritenuto responsabile non della contravvenzione di cui all’art. 727 c.p. ma del delitto di cui all’art. 544-ter c.p.
La Terza Sezione della Cassazione, infatti, con la sentenza n. 8036 del 2018, ha ritenuto l’imputato responsabile del reato di cui all’art. 544-ter, comma 2, c.p. — « per aver sottoposto il proprio cane ad un trattamento incompatibile con la sua indole, tenendolo per vari giorni legato ad una catena all’interno di un box, privo di assistenza igienica, di acqua e di cibo, all’interno del quale vi era una cuccia in cemento non riparata dalle intemperie » — condannandolo alla pena di sei mesi di reclusione, senza sospensione condizionale, in considerazione dei suoi precedenti.
Nella ricostruzione motivazionale, la Suprema Corte ha osservato che la condizione del cane — nello stato di magrezza e deperimento avanzato, così come riscontrato dal veterinario pubblico intervenuto, che refertava, altresì, la difficoltà di reggersi sulle quattro zampe e di alimentarsi — era riconducibile ad uno stato psicologico tale da integrare comunque il concetto di lesione.