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Author Archives: Carmine Milo

Un immobile con abusi edilizi può essere alienato o acquistato all’asta?

Carmine Milo No Comments

L’art. 46 del d.P.R. n. 380/01 prevede che gli atti tra vivi che abbiano per oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento della comunione dei diritti reali relativi ad edifici o loro parti, costruiti dopo il 17 marzo del 1985, sono nulli e non possono essere stipulati se da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, il permesso di costruire o il permesso in sanatoria.

La medesima disposizione dispone, però, che tale nullità non si applica agli atti che derivano da procedure esecutive immobiliari, siano esse individuali o concorsuali.

Da ciò consegue, pertanto, che un immobile abusivo non può essere alienato, ma può essere oggetto di procedura esecutiva immobiliare.

Segnatamente, l’aggiudicatario — in presenza delle condizioni previste per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria — dovrà presentare la relativa domanda di accertamento di conformità, entro 120 giorni dalla notifica del decreto di trasferimento emesso dal Giudice.

La condizione urbanistico edilizia sarà accertata dall’esperto nominato dal Tribunale, il quale dovrà tenerne conto ai fini della determinazione del prezzo.

Sul punto, appare opportuno rimarcare che gli immobili acquistati all’asta, viziati da abusi edilizi, non possono ritenersi sic et simpliciter sanati per effetto della sola conclusione della procedura esecutiva immobiliare.

Come ribadito in molteplici occasioni dal Consiglio di Stato — confronta, ex multis, la recente sentenza n. 1996 del 2 maggio 2017 — la vendita all’asta di un immobile nell’ambito di una procedura espropriativa non importa effetto sanante degli eventuali illeciti edilizi realizzati.

Secondo i Giudici amministrativi, a tale conclusione non si perverrebbe neanche « facendo applicazione del principio generale del cd. effetto purgativo derivante dalla natura di acquisto a titolo originario del bene ».

Nella ricostruzione motivazionale operata in sentenza, in definitiva, il Consiglio di Stato — pur ritenendo che nel nostro ordinamento giuridico non si rinviene alcun dato normativo positivo dal quale desumere che la vendita all’asta importerebbe effetto sanante degli abusi edilizi realizzati — è attento ad evidenziare che l’unico aspetto espressamente preso in considerazione dal Legislatore per l’ipotesi che il bene acquistato sia affetto da illeciti edilizi riguarda la scansione dei tempi per attivare la procedura di sanabilità delle opere.

Infatti, ai sensi dell’articolo 40, ultimo comma, della legge n. 47/1985 — come già anticipato — « nell’ipotesi in cui l’immobile rientri nelle previsioni di sanabilità di cui al capo IV della presente legge e sia oggetto di trasferimento derivante da procedure esecutive, la domanda di sanatoria può essere presentata entro centoventi giorni dall’atto di trasferimento dell’immobile purché le ragioni di credito per cui si interviene o procede siano di data anteriore all’entrata in vigore della presente legge ».

Ne deriva, in conclusione, che gli immobili sottoposti ad esecuzione possono essere sanati in un termine diverso dalle normali scadenze per le richieste di condono edilizio — tale termine decorre solo dalla emissione del decreto di trasferimento — ma non possono ritenersi sanati per effetto della sola conclusione della procedura esecutiva immobiliare.

Avv. Carmine Milo

 

La breve durata del matrimonio incide sull’assegno di mantenimento?

Carmine Milo No Comments

Il giudizio relativo all’accertamento della spettanza dell’assegno divorzile, dopo il perfezionamento della fattispecie estintiva del rapporto matrimoniale, si articola in due fasi successive e distinte, sull’an e sul quantum debeatur, informate rispettivamente ai principi dell’autoresponsabilità e della solidarietà economica.

Nella prima fase — come costantemente rimarcato dalla giurisprudenza di legittimità — il giudice verifica l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso.

Nella seconda fase, invece, il giudice procede alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno, che va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tali elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio.

In materia di divorzio, è saldo il principio giurisprudenziale per cui la durata del matrimonio influisce sulla determinazione della misura dell’assegno previsto dalla Legge n. 898 del 1970, ma non anche — salvo casi eccezionali in cui non si sia verificata alcuna comunione materiale e spirituale tra i coniugi — sul riconoscimento dell’assegno stesso, assolvendo quest’ultimo ad una finalità di tutela del coniuge economicamente più debole.

Nello specifico, la Suprema Corte, con la sentenza n. 15144 del 2018 — pronunciandosi sul ricorso mosso da un marito, convinto che la Corte d’Appello non avesse considerato la breve durata del suo matrimonio — ha ribadito che i giudici di secondo grado avevano correttamente accertato il diritto della moglie a ricevere l’assegno di mantenimento da parte dell’ex coniuge, vista la notevole sproporzione dei loro redditi.

Nella ricostruzione operata in sentenza, pertanto, la Cassazione — richiamando un precedente similare, relativo ad un vincolo matrimoniale di appena 15 mesi, rispetto al quale, tra l’altro, la moglie godeva anche di un proprio reddito, seppur inferiore a quello del marito — ha sancito che la breve durata del matrimonio (all’incirca un anno, nel caso di specie) non rappresenta un elemento capace di poter escludere il diritto all’assegno di mantenimento.

In definitiva, infatti, la Suprema Corte ha ritenuto che l’assegno al coniuge va commisurato al mantenimento del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e che, in mancanza di prove, l’indice di tale tenore può essere costituito dall’attuale divario reddituale, e in generale, dalla diversa posizione economica dei coniugi.

Avv. Teresa Santamaria

Guida in stato di ebrezza: rifiuto dell’esame del sangue e particolare tenuità del fatto!

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La previsione normativa contemplata nell’art. 186 del Codice della Strada mira a prevenire la pericolosità del soggetto che conduce un veicolo dopo aver assunto bevande alcoliche. La sanzionabilità della guida in stato di ebbrezza si determina in base alla quantità di alcool presente nel sangue del guidatore. In alcune ipotesi — quando la soglia di tasso alcolemico non oltrepassa il valore di 0,5 grammi per litro (g/l) — il trasgressore va incontro alla sola sanzione amministrativa. Negli altri casi, il codice della strada prevede una serie di casi ordinati in via gradata, ad ognuno dei quali fa corrispondere una pena sempre più severa, proporzionale al tasso alcolemico riportato dal conducente del veicolo.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 4943 del 1° febbraio 2018, ha riconosciuto all’automobilista la possibilità di opporre un esplicito dissenso all’esame del sangue qualora sia richiesto dalla polizia per l’accertamento del tasso alcolemico, escludendo la medesima possibilità in caso di richiesta di avanzata dal personale  sanitario.

Sul punto, occorre precisare, infatti, che, nel caso in cui il prelievo ematico sia compiuto autonomamente dai sanitari in esecuzione di ordinari protocolli di pronto soccorso — in assenza di indizi di reità a carico di un soggetto coinvolto in un incidente stradale e poi ricoverato — esso non rientra tra gli atti di polizia giudiziaria urgenti ed indifferibili, con conseguente venir meno dell’obbligo di avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia.

Viceversa, nel caso in cui l’esecuzione del prelievo da parte del personale medico sia espressamente richiesta dalla polizia — al fine di acquisire la prova del reato nei confronti del soggetto già indiziato — il personale richiesto finisce per agire come una vera e propria longa manus della polizia giudiziaria e, rispetto a tale accertamento, scatteranno le garanzie difensive della facoltà di farsi assistere da un legale.

Con la sentenza n. 24100 del 29 maggio 2018, la Suprema Corte — rinviando, tra l’altro, alla Corte di appello di Salerno — ha, altresì, sancito l’applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, in relazione al reato di guida sotto l’influenza dell’alcool.

Al riguardo, la Corte ha osservato che la pronuncia emessa dalla Corte di appello, conformandosi ai principi stabiliti dai Giudici di prime cure, si è limitata a descrivere la fattispecie legale astratta, senza offrire alcuna valutazione sulla particolare tenuità del fatto.

Nella ricostruzione motivazionale operata in sentenza, la Cassazione ha sottolineato, infatti, la necessità di un’analisi sulla condotta, sulle conseguenze del reato e sul grado della colpevolezza.

In definitiva, proprio alla luce della riconosciuta graduabilità del reato, in relazione al disvalore d’azione e di evento, nonché all’intensità della colpevolezza, trova, pertanto, giustificazione il recente istituto di cui all’art. 131 bis c.p., in relazione al quale è necessario il compimento di una valutazione relativa al fatto concreto e la verifica sul grado di offensività dell’illecito.

Telecamere di videosorveglianza in area condominiale o sul posto di lavoro: ammissibilità o interferenza illecita nella vita privata?!

Carmine Milo No Comments

In ambito condominiale, l’installazione di un impianto di videosorveglianza, da parte del singolo comproprietario all’interno dell’edificio condominiale, è ammissibile, a condizione che non comprometta i diritti degli altri condomini.

Il Garante in materia di videosorveglianza ha individuato, innanzitutto, una serie di prescrizioni da rispettare, chiarendo che l’installazione delle telecamere, ad iniziativa di singoli condomini all’interno di edifici condominiali, è consentita solo se l’angolo di ripresa investe spazi esclusivamente pertinenti alla proprietà del condomino installatore: si pensi, a titolo esemplificativo, allo spazio di accesso alla propria abitazione. Ne consegue, pertanto, il divieto di qualsiasi registrazione atta a riprodurre le aree comuni (cortili, pianerottoli, corridoi, scale, garage comuni) o quelle afferenti all’alloggio degli altri condomini.

L’Authority, in secondo luogo, per legittimare la videosorveglianza, ha richiesto la c.d. valutazione di proporzionalità, nel senso che la scelta delle telecamere — rispetto ad altre misure già adottate o adottabili dai comproprietari (es. sistemi comuni di allarme, blindatura o protezione rinforzata di porte e portoni, cancelli automatici) — deve costituire la soluzione più idonea a garantire la sicurezza dei condomini.

Di recente, la Suprema Corte è intervenuta sulla questione relativa alla sussistenza del reato di cui all’art. 615 bis c.p. — «interferenze illecite nella vita privata» — nel caso dell’effettuazione di riprese dell’area condominiale.

Le scale di un condominio e i pianerottoli delle scale condominiali non assolvono alla funzione di consentire l’esplicazione della vita privata al riparo da sguardi indiscreti, perché sono, in realtà, destinati all’uso di un numero indeterminato di soggetti e, di conseguenza, la tutela penalistica di cui all’art. 615 bis c.p. non si estende alle immagini eventualmente ivi riprese (cfr. Cass. pen., sez. V, 30 maggio 2017,  n. 34151). Ne deriva, quindi, che la ripresa con una telecamera delle parti comuni non può in alcun modo ritenersi indebitamente invasiva della privacy dei condomini.

In ambito di sicurezza sul lavoro, gli ultimi aggiornamenti normativi hanno riconosciuto la possibilità per le aziende di installare ed utilizzare sistemi di videosorveglianza per finalità esclusivamente disciplinari.

Lo statuto dei lavoratori stabilisce che gli impianti audiovisivi nei luoghi di lavoro possono essere impiegati per esigenze organizzative, produttive, nonché per la sicurezza del lavoro o per tutelare il patrimonio aziendale, purché, ad ogni modo, prima dell’installazione, ci sia un accordo tra il datore di lavoro e le rappresentanze sindacali dei lavoratori. In mancanza di tale accordo o del provvedimento alternativo di autorizzazione — richiesto dal datore alla Direzione territoriale del lavoro nel caso che l’accordo non sia raggiunto — l’installazione dell’apparecchiatura è illegittima e penalmente sanzionabile.

Secondo recenti orientamenti giurisprudenziali, i risultati delle videoriprese, effettuate per mezzo di telecamere installate dal datore di lavoro allo scopo di effettuare un controllo, all’interno del luogo di lavoro, a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei dipendenti, sono utilizzabili, ai fini probatori, nel processo penale nei confronti di un imputato che sia un dipendente dell’azienda.

Segnatamente, secondo la Suprema Corte di Cassazione — uniformatasi, tra l’altro, alla chiara posizione assunta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui il datore, qualora intenda utilizzare strumenti di videosorveglianza, ha l’obbligo di informare i propri dipendenti — la videoregistrazione, in tal caso, non rappresenta una forma di “controllo a distanza” dell’attività dei lavoratori (vietata in assenza delle garanzie procedurali previste dalla statuto del lavoratori), ma un “controllo difensivo” rispetto al quale non sussiste un divieto probatorio (cfr. Cass. pen., sez. II, 30 novembre 2017, n. 4367).

Dott.ssa Jessica Carrano

Bed and breakfast e case vacanza: via libera anche senza il consenso del condominio.

Carmine Milo No Comments

La rapida evoluzione dell’offerta turistica sta condizionando sensibilmente il mercato immobiliare, offrendo ai proprietari di piccole unità abitative chiare opportunità di investimento e nuove fonti di reddito, collegate, soprattutto, alla diffusione di formule turistiche contraddistinte da una particolare brevità delle locazioni, quali bed and breakfast e case vacanza.

In un panorama così variegato, appare opportuno soffermare l’attenzione su una specifica e dibattuta questione attinente alla compatibilità e alla coesistenza delle richiamate formule del B&B e delle case vacanze all’interno degli immobili condominiali.

Sul punto, giova rimarcare che il codice civile, pur attribuendo al regolamento condominiale la funzione di pianificazione della gestione dei beni comuni, prevede che lo stesso possa contenere chiare limitazioni alla facoltà di uso della proprietà individuale, purché connotate da chiarezza ed inequivocità.

Nonostante tale previsione normativa, la Suprema Corte ha evidenziato, però, che il richiamato regolamento non può prevedere alcun tipo di divieto relativo al cambio di destinazione degli appartamenti da uso di civile abitazione a quello turistico-commerciale.

Con una recente sentenza del 2017, infatti, la Cassazione ha sancito il principio secondo il quale le case vacanze e i bed and breakfast non costituiscono attività commerciali tali da configurare una variazione della destinazione d’uso dell’immobile (cfr. Cass. civ., II Sez., 28 settembre 2017, n. 22711).

Secondo tale orientamento, sarebbe legittimo, altresì, disporre il divieto di affitto di immobili sotto forma di pensione o albergo solo nel caso in cui la loro realizzazione potrebbe costituire grave pregiudizio per il decoro o per la sicurezza dello stabile e dei suoi abitanti.

In definitiva, pertanto, il regolamento non può vietare ai condòmini di affittare ai turisti la propria abitazione per le vacanze.

È nulla, infatti, nell’ottica giurisprudenziale, la delibera assembleare con la quale viene approvata una clausola del regolamento condominiale lesiva del diritto di proprietà dei singoli condomini, come quella volta a statuire il divieto ad esercitare le menzionate attività turistico ricettive.

Dott. Carlo Apicella

 

Collare antiabbaio e cuccia non adeguata: le ultime novità a tutela dei cani

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La diffusione dell’allarme sociale per la crescita esponenziale dei fenomeni di maltrattamento dei cani ha rappresentato monito concreto per il puntuale intervento del legislatore.

Negli ultimi anni, ai fini della prevenzione del rischio di aggressione, è stato attribuito un ruolo fondamentale alla responsabilità dei proprietari.

La crescente sensibilità collettiva nei confronti degli amici a quattro zampe, infatti, ha rafforzato la tutela attraverso previsioni normative e giurisprudenziali sempre più rigide a carico del proprietario, che — responsabile del benessere e del controllo del proprio animale — risponde, pertanto, sia civilmente che penalmente dei danni o delle lesioni che il cane arreca a persone, animali o cose.

La Suprema Corte, con due recenti pronunce, oltre a tracciare, con la solita puntualità, i divieti e gli obblighi imposti ai proprietari, si è soffermata su due aspetti di rilievo, attinenti, rispettivamente, all’uso del collare e ad un adeguato riparo per il riposo del cane.

In merito all’uso del collare elettrico antiabbaio — che produce scosse o altri impulsi elettrici trasmessi al cane tramite comando a distanza — la Corte ha chiarito che il suo utilizzo integra il reato di cui all’art. 727 c.p., in quanto concretizza una forma di addestramento fondata esclusivamente su uno stimolo doloroso tale da incidere sensibilmente sull’integrità psicofisica dell’animale.

Segnatamente, la Terza Sezione della Corte di Cassazione — con la sentenza n. 3290, depositata in cancelleria il 24 gennaio 2018 — ha condannato l’imputato ai sensi dell’art. 727, comma 2, c.p., fattispecie contravvenzionale rubricata « abbandono di animali » che punisce, con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro, « chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze ».

Sul punto, è opportuno rimarcare che la pronuncia del 2018 ha rafforzato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini dell’integrazione degli elementi costitutivi del reato, la sofferenza può consistere nei soli patimenti, non essendo necessaria la volontà del soggetto agente di infierire sull’animale, né che quest’ultimo riporti una lesione all’integrità fisica.

Ne deriva, pertanto, che sono idonei ad integrare il reato di abbandono di animali, non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione.

In relazione alla problematica relativa all’uso di una cuccia non adeguata, è stato riservato un trattamento sanzionatorio differente al proprietario di un pastore tedesco che — accusato di aver sottoposto a vere e proprie sevizie, tenendolo legato e senza un adeguato riparo nei mesi invernali — è stato ritenuto responsabile non della contravvenzione di cui all’art. 727 c.p. ma del delitto di cui all’art. 544-ter c.p.

La Terza Sezione della Cassazione, infatti, con la sentenza n. 8036 del 2018, ha ritenuto l’imputato responsabile del reato di cui all’art. 544-ter, comma 2, c.p. — « per aver sottoposto il proprio cane ad un trattamento incompatibile con la sua indole, tenendolo per vari giorni legato ad una catena all’interno di un box, privo di assistenza igienica, di acqua e di cibo, all’interno del quale vi era una cuccia in cemento non riparata dalle intemperie » — condannandolo alla pena di sei mesi di reclusione, senza sospensione condizionale, in considerazione dei suoi precedenti.

Nella ricostruzione motivazionale, la Suprema Corte ha osservato che la condizione del cane — nello stato di magrezza e deperimento avanzato, così come riscontrato dal veterinario pubblico intervenuto, che refertava, altresì, la difficoltà di reggersi sulle quattro zampe e di alimentarsi — era riconducibile ad uno stato psicologico tale da integrare comunque il concetto di lesione.

Separazione e divorzio: carcere e multa per chi non paga l’assegno di mantenimento!

Carmine Milo No Comments

Il 6 aprile 2018 è entrata in vigore la riforma penale che ha previsto l’introduzione di alcuni nuovi reati, tra cui quello relativo alla violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di divorzio.

Con il decreto legislativo n. 21 del 2018, infatti, il legislatore ha introdotto nel codice penale l’articolo 570 bis, prevedendo una specifica fattispecie di reato per il coniuge « che si sottrae all’obbligo di corresponsione di ogni tipologia di assegno dovuto in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio ovvero vìola gli obblighi di natura economica in materia di separazione dei coniugi e di affidamento condiviso dei figli ».

La nuova previsione è intervenuta per riordinare la disciplina nazionale che, sul punto, mostrava evidenti carenze sistematiche.

La fattispecie prevista dall’articolo 570 bis c.p., infatti, ha sostituito ed abrogato l’art.12 sexies della legge n. 898/1970 sul divorzio — secondo cui al coniuge che si sottraeva all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto si applicavano le pene previste dall’art. 570 c.p. — e l’art. 3 della legge n. 54/2006 che, a sua volta, in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli, prevedeva l’applicabilità dell’art.12 sexies nel caso di violazione degli obblighi di natura economica.

In conseguenza di tale abrogazione, nel pieno rispetto dello spirito della “riserva di codice”, il recente decreto legislativo ha, pertanto, trasposto entrambe le fattispecie incriminatrici nella nuova norma codicistica (art. 570 bis), la quale, uniformandosi alle sanzioni già sancite dall’art. 570 c.p., ha previsto la pena della multa da 103 a 1.032 euro e della reclusione in carcere sino ad un anno.

Con l’intervento riformatore, stante la dibattuta questione, si attendeva una posizione definitiva da parte del legislatore relativamente ai genitori non sposati.

Sul punto, nonostante una recente pronuncia contraria della Cassazione, è prevalente l’orientamento negativo della giurisprudenza che non fa rientrare nella nuova fattispecie penale l’omesso versamento dell’assegno da parte del genitore non sposato, che sarà sanzionato solo da un punto di vista civilistico.

La nuova norma, per come è formulata, comporta, infatti, l’applicabilità della sanzione penale, con riguardo ai figli maggiorenni, solo se i genitori sono divorziati, escludendo la rilevanza penale dell’omesso versamento dell’assegno per i genitori che non hanno mai contratto matrimonio.

Nonostante l’opportuna occasione per sgomberare il campo da ogni equivoco, il legislatore del 2018, con l’utilizzo del termine “coniuge”, non ha risolto le evidenti lacune sistematiche sulle quali dovrà intervenire inevitabilmente la giurisprudenza di legittimità per fare chiarezza.

Buche stradali: le novità della Cassazione per ottenere il risarcimento danni.

Carmine Milo No Comments

In tema di risarcimento del danno, in caso di sinistro causato da buche stradali, la giurisprudenza non è univoca, ma stabilisce principi talvolta favorevoli e altre volte contrari all’automobilista.

In termini generali, la normativa civilistica obbliga al risarcimento del danno colui che procura un danno ingiusto ad altri (art. 2043 c.c.) e statuisce la responsabilità oggettiva in capo al custode di una cosa o al relativo proprietario per i danni procurati dalla cosa stessa (art. 2051 c.c.).

Risarcimento non dovuto: modalità e condizioni.

L’esclusione della responsabilità per la cattiva manutenzione dell’asfalto si verifica in presenza di caso fortuito, quando, cioè, il danno sia procurato da un evento improvviso, imprevedibile, che non dipende dalla volontà o dalla colpa del proprietario della strada.

L’ordinamento richiede, altresì, la diligente condotta del danneggiato. Ne deriva, infatti, che non verrà corrisposto alcun risarcimento nel caso in cui l’automobilista dovesse finire in una buca a causa del suo comportamento imprudente o negligente.

Secondo specifiche casistiche, il risarcimento del danno richiesto dal danneggiato, nella maggior parte dei casi, viene negato:

  • in presenza di una buca di grosse dimensioni, di certo evitabile con maggiori probabilità da parte dell’automobilista;
  • qualora vi siano luce e visibilità sufficienti per accorgersi della buca;
  • se il danneggiato conosce la strada ed è consapevole della presenza di pericoli;
  • se la strada è in condizioni di palese dissesto: l’automobilista che sceglie di percorrere ugualmente tale via, lo farà a proprio rischio e pericolo;
  • se l’automobilista ha una guida veloce oppure è distratto.

In relazione a tale ultimo aspetto, però, una recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. civ., Sez. III, 28 luglio 2017, n. 18753) ha chiarito che il semplice accertamento dell’eccesso di velocità da parte dell’automobilista non esclude che questi possa aver diritto al risarcimento per la buca stradale se risulta che, anche tenendo un’andatura adeguata, questi avrebbe ugualmente subito il danno.

Risarcimento dovuto: le ultime sentenze sul punto.

Il risarcimento è dovuto quando la buca è nascosta e difficilmente percepibile. Ne consegue che, al momento del sinistro e con riferimento alle condizioni del manto stradale, non deve sussistere la concreta possibilità per il danneggiato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la situazione di pericolo.

Il danneggiato, per ottenere il risarcimento, deve provare, altresì, possibilmente anche con materiale fotografico, l’esistenza di un effettivo dissesto del manto stradale. Dalla documentazione fotografica, come ribadito anche dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. III, 30 novembre 2017, n. 28665), deve emergere anche la data in cui la stessa è stata scattata altrimenti non può costituire una valida prova.

La custodia di una strada non è limitata alla sola carreggiata ma si estende anche agli elementi accessori o pertinenze, ivi comprese eventuali barriere laterali con funzione di contenimento e protezione della strada. Ne deriva che l’amministrazione è responsabile del danno — anche in caso di violazione delle regole del codice della strada da parte del danneggiato — se risulta che la presenza di un’adeguata barriera avrebbe potuto opporsi all’urto da parte del mezzo ed evitare l’infortunio (v., ancora, Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2017, n. 18753).

In ogni caso, pur in presenza di una buca occulta e difficile da scorgere, sarà sempre necessario che il danneggiato rispetti le regole di prudenza e diligenza, a pena di riconoscimento del concorso di colpa ex art. 1227 c.c.. In tal caso, secondo una recente ordinanza emessa dalla Corte di Cassazione, spetta all’amministrazione dimostrare che il danneggiato non ha rispettato le regole di prudenza anche quando la buca è di grosse dimensioni e su una strada illuminata (Cass. civ., sez. III, 13 marzo 2018, ord. n. 6034).

 

Edilizia libera. Gazebo e pergolati senza permesso: facciamo il punto!

Carmine Milo No Comments

Dal novembre 2016 è in atto un’azione governativa di semplificazione, volta a riformare a livello nazionale i regimi amministrativi delle pratiche edilizie.

Il glossario unico per l’edilizia libera — allegato al Decreto legislativo n. 222 del 2016 e redatto proprio in quest’ottica — contiene l’elencazione degli interventi per i quali non sono richiesti i permessi a costruire, Cila o Scia e che, pertanto, possono essere eseguiti senza alcun titolo abitativo.

Il legislatore nazionale, dopo quindici mesi dal primordiale provvedimento, non ha, però, ancora provveduto, nonostante la delicatezza del settore, ad ultimare l’iter normativo.

Solo a seguito della Conferenza unificata Stato-Regioni del 22 febbraio 2018, intanto, è stata raggiunta l’intesa su una parte del glossario, proprio quella contenente l’elenco degli interventi di edilizia realizzabili senza dover richiedere autorizzazioni o presentare comunicazioni.

L’auspicio di cittadini, imprese e Pubblica Amministrazione è che nei prossimi mesi si proceda al completamento del glossario unico, con la specifica previsione delle opere edilizie realizzabili mediante Cila, Scia, permesso di costruire e Scia in alternativa al permesso di costruire.

Lo stralcio di glossario appena approvato — che dovrà essere pubblicato in G.U. per entrare in vigore — riveste, indiscutibilmente, notevole importanza per il settore edilizio, dal momento che, specificando il regime giuridico dell’attività edilizia libera e prevedendo un elenco delle opere realizzabili, riduce in modo significativo il contenzioso e l’incertezza normativa.

Sono attività di edilizia libera la sostituzione di pavimentazioni esterne ed interne, il rifacimento di intonaci, la sostituzione di inferriate, parapetti e ringhiere, la riparazione e la sostituzione dei manti di copertura — nel rispetto delle caratteristiche tipologiche e materiche — il rinnovamento o la messa a norma degli impianti elettrici, di distribuzione del gas, igienico-sanitari, di illuminazione esterna.

Con il Decreto del 2016, il passaggio dal regime di comunicazione a quello di edilizia libera è avvenuto anche per i pannelli solari e fotovoltaici a servizio di edifici al di fuori dei centri storici, per gli arredi da giardino — barbecue in muratura, fontane, muretti, fioriere e panche — fino ad inglobare gazebo e pergolati, opere che devono essere contingenti e temporanee, di limitate dimensioni e non stabilmente infisse al suolo.

In attesa di nuovi sviluppi, si consiglia cautela … pur potendo essere eseguite senza alcun titolo abilitativo, le opere “libere” devono essere poste in essere nel rispetto delle prescrizioni locali e delle normative di settore!

Sanzioni penali per chi porta il cellulare in cabina elettorale. La novità del tagliando antifrode.

Carmine Milo No Comments

Il Ministero dell’interno, con la circolare n. 19 del 23 febbraio 2018, ha dettato tempi e modalità delle operazioni di votazione relative alla prossime elezioni di domenica 4 marzo, evidenziando anche le novità ed i rischi principali per gli elettori.

La recente legge di riforma del sistema elettorale di Camera e Senato — legge 3 novembre 2017, n. 165 — ha previsto che ogni scheda sia dotata di un apposito tagliando rimovibile con codice progressivo alfanumerico generato in serie, denominato tagliando antifrode.

L’elettore, dopo aver votato in cabina e dopo aver ripiegato ciascuna scheda, non dovrà inserirla lui stesso nell’urna, ma riconsegnarla al Presidente dell’ufficio di sezione.

Il tagliando antifrode sarà rimosso a cura del Presidente del seggio e conservato dagli uffici elettorali di sezione prima dell’inserimento della scheda nell’urna.

Qualora l’elettore restituirà la scheda priva del tagliando antifrode o con un codice alfanumerico diverso, la scheda sarà annullata e l’elettore non sarà più riammesso a votare.

Per assicurare la libertà e la segretezza della espressione del voto nelle consultazioni elettorali, la legge ha fatto divieto di introdurre all’interno delle cabine elettorali telefoni cellulari o altre apparecchiature in grado di fotografare o registrare immagini.

Il Presidente dell’ufficio di sezione dovrà invitare l’elettore, all’atto della presentazione del documento di identificazione e della tessera elettorale, a depositare lo smartphone in suo possesso, che sarà restituito solo dopo l’espressione del voto.

Per gli eventuali contravventori è prevista la sanzione dell’arresto da tre a sei mesi e dell’ammenda da 300 a 1.000 euro, come richiamato dall’apposito manifesto che l’elettore troverà affisso all’interno del seggio in modo ben visibile.

Nel caso in cui l’elettore venga colto nell’atto di fotografare o registrare immagini dell’espressione del proprio voto, in violazione, quindi, del principio di libertà e segretezza, la scheda di voto — anche nel caso in cui sia stata già votata — sarà annullata e l’elettore non potrà in ogni caso essere riammesso a votare.

 

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